Cosa ho imparato dalla partecipazione alla mostra “Essere madre oltre la pena”, alla sezione Nido del carcere femminile di Rebibbia
Sono molto grato a due mie amiche, l’educatrice Luciana Mascia e la fotografa Natascia Aquilano, per avermi coinvolto in un loro splendido progetto. Si chiama “Essere madre oltre la pena”, ed è un laboratorio che aveva l’obiettivo di portare lo strumento della fotografia all’interno del carcere di Rebibbia. In particolare nella sezione Nido, ovvero quella in cui le madri detenute condividono le loro celle con i figli al di sotto dei tre anni.
Ho avuto l’onore di rivestire un ruolo (del tutto marginale, ma non per questo meno toccante, almeno a livello personale) come moderatore del dibattito che ha avuto luogo in occasione dell’evento finale di questo percorso: l’inaugurazione della mostra in cui sono stati esposti tanto gli scatti delle detenute, quanto quelli della fotografa professionista che le ha guidate. La mattinata ha registrato un buon successo di partecipazioni, sia da parte del pubblico che delle stesse istituzioni: tra le altre mi fa piacere citare la consigliera regionale Marta Bonafoni e i garanti dei diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, e di Roma, Gabriella Stramaccioni. Già solo per questo risultato il progetto sarebbe stato lodevole: perché ha permesso a molte persone (compreso il sottoscritto) di venire a contatto con una realtà di cui si conosce e si parla sempre troppo poco, come quella del carcere e specialmente di quella sezione, così delicata, che è il Nido.
Ma il risultato sicuramente più importante di questo laboratorio è quello che ha prodotto non al di là, ma al di qua delle sbarre; non all’esterno, ma all’interno delle mura. E non nego che questo aspetto mi ha colpito e mi ha indotto anche diverse riflessioni dalla mia prospettiva di Coach. L’intuizione che Luciana e Natascia hanno avuto, infatti, è totalmente in linea con il pilastro fondamentale del metodo del Coaching: non concentrarsi sui difetti o sui limiti dell’individuo, bensì lavorare sullo sviluppo dei suoi punti di forza e delle sue potenzialità.
Troppo spesso, per come è concepita oggi in concreto l’istituzione carceraria, si tende a proiettare sui detenuti un’immagine bidimensionale, appiattita unicamente sul reato che hanno commesso. Ma anche loro, così come tutti noi, non possono identificarsi soltanto con una loro azione, per quanto amorale ed esecrabile essa sia. Un essere umano è un universo complesso, che va osservato a tutto tondo, e che vale molto di più della cosa peggiore che ha commesso.
Beninteso, in questa lettura non c’è proprio nulla di buonista. Anzi, se porto avanti questo punto di vista è perché ritengo che prima di tutto sia utile e conveniente per la società. È meglio, prima di tutto per noi che stiamo fuori, pensare che un criminale sia perduto e senza speranza, oppure che abbia anche qualche risorsa positiva da mettere a frutto, per risarcire seppur in minima parte il danno che ha arrecato? È più produttivo allenare le sue doti migliori, oppure limitarci a rendere le prigioni soltanto delle atroci palestre del crimine, che ci restituiscono uomini e donne ancora peggiori di quelli che sono entrati? Questo, io ritengo, è il senso di quel ruolo riabilitativo che la stessa Costituzione assegna all’istituzione carceraria, e che dovrebbe (ma purtroppo molto spesso non è così) andare di pari passo con quello punitivo.
Per fortuna esiste anche l’intraprendenza individuale di qualche persona di buona volontà, che decide di impegnarsi personalmente perché questa visione diventi concretezza. È esattamente quanto hanno fatto Luciana e Natascia con questo laboratorio. Che ha fatto molto di più che fornire alle madri e ai loro bambini delle occasioni per stabilire legami autentici, far crescere e rafforzare le loro relazioni genitore-figlio, seppur in un ambiente ostile: ha permesso loro di conoscere realtà diverse, ampliare i loro schemi mentali d’interpretazione, proiettare una possibilità diversa di vivere il loro domani.
Gli effetti più deleteri che i contesti criminali (non solo un carcere, ma anche un quartiere malfamato o un ghetto degradato) hanno sugli individui che li abitano, infatti, non sono tanto le frustrazioni o le privazioni quotidiane: bensì l’abitudine ad una vita di fallimento e disperazione, l’incapacità di sviluppare credenze e sogni, la mancanza di modelli alternativi a cui ispirarsi. Se intorno a noi vediamo sempre e solo un’esistenza di povertà, e il crimine come strumento per affrancarsi da essa, finiremo per convincerci che quella non sia soltanto la normalità, ma addirittura l’unica strada che possiamo intraprendere. Così ci avranno rubato il futuro, la possibilità di immaginare, visualizzare e quindi poter creare un avvenire differente.
Per un gruppo di mamme che probabilmente hanno vissuto sempre immerse in contesti di questo genere, e altrettanto per i loro bambini che si ritrovano inseriti in carcere fin dai primissimi mesi della loro vita, dunque, poter anche solo pensare che esiste una prospettiva altra, fatta di fotografia, di arte e di bellezza, significa compiere il primo passo per cambiare. Bisogna prima di tutto conoscere, venire a contatto con modelli diversi, questa volta improntati a valori e virtù positive, per poter scardinare quella gabbia che ci ha convinto che delinquere sia l’unica attività che ci possiamo permettere e che ci meritiamo. Una gabbia mentale e autocostruita, ma che è molto più solida di quella cella che ci rinchiude fisicamente.
Questo, per un Coach come me, è il senso più profondo di “Essere madre oltre la pena”. Allenando la loro potenzialità della creatività, Luciana e Natascia hanno restituito alle donne in carcere, tanto quanto ai loro figli (per quanto piccoli), la consapevolezza delle proprie risorse, e un paradigma di esistenza che non si limiti più alla mera sopravvivenza fatta di sotterfugi ai limiti della legge. Attraverso l’obiettivo delle loro macchine fotografiche, quelle madri hanno prima di tutto potuto osservare un futuro diverso. E migliore.
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