L’emergenza coronavirus si supera tutti insieme, facendo comunità. Ovvero, sviluppando le nostre relazioni all’insegna della comunicazione empatica
L’assenza forzata di contatti che è imposta da questo periodo di quarantena non impedisce affatto di mantenere viva la nostra socialità. E meno male. L’essere umano è un animale intrinsecamente sociale, tanto che l’appartenenza (ovvero l’amicizia, l’affetto, l’amore) e la stima (ovvero il rispetto reciproco) fanno parte integrante dei suoi bisogni.
Ciò significa che non possiamo mantenerci sani e in buona salute mentale senza entrare in rapporto con i nostri simili. Senza sapere che ci sono altre persone che stanno dalla nostra parte. Per fortuna le moderne tecnologie ci offrono tantissime occasioni di sentirci vicini, almeno a livello virtuale, anche quando siamo lontani a livello fisico.
Non smettiamo di sentirci e di vederci
Ma sms, messaggi WhatsApp, email e post su Facebook non sono sufficienti. Una comunicazione umana non può considerarsi completa se non contempla anche quei preziosissimi elementi non verbali: il tono della voce, lo sguardo, l’espressione del volto, il sorriso. Per questo l’ideale è privilegiare le telefonate, i messaggi vocali, o meglio ancora le videochiamate.
Questi strumenti ci possono permettere di ricreare momenti di socializzazione anche a distanza: possiamo, ad esempio, prendere un caffè con un collega, fare un aperitivo insieme ad un amico, cenare con i nostri parenti, anche restando ciascuno a casa sua.
Come comunicare bene (e non sbroccare)
Un periodo di ansia e di paura diffuse può però portarci anche a chiuderci in un atteggiamento diffidente e scostante, che rischia di irradiarsi anche nel nostro modo di comunicare e quindi compromettere le nostre relazioni. Per questo è importante, oggi più che mai, fare attenzione al modo in cui entriamo in contatto con gli altri. Sia virtualmente, sul web, sia di persona, con i coinquilini, i fidanzati o i parenti con cui condividiamo la casa, o con le poche persone che ci capita di incontrare in occasione delle poche uscite concesse, magari quando andiamo a fare la spesa.
La regola aurea è sempre quella dell’empatia: ovvero la capacità di riconoscere negli altri quegli elementi che ci appartengono, quegli aspetti che ci sono familiari, e dunque di creare con loro una sincera sintonia. Il modo migliore di esercitarla è quello dell’ascolto: ovvero, stare in silenzio, porre attenzione e concentrazione a comprendere e capire il nostro interlocutore, invitarlo ad esprimersi attraverso domande o gesti del volto, ed evitare di interrompere, specialmente con i consigli prematuri o non richiesti.
Ma lo stesso atteggiamento empatico va adottato anche quando siamo noi a parlare, sforzandoci ad rivolgerci agli altri come vorremmo che loro si rivolgessero a noi. Esprimendo cioè la gentilezza, anche quando facciamo notare gli errori, ed evitando l’ironia pungente, specialmente se ci confrontiamo con chi è più spaventato. Infine, la dote forse più difficile di tutte da mettere in campo nei momenti dolorosi, ma altrettanto fondamentale, è quella della sincerità. Non dobbiamo temere di condividere le nostre emozioni e le nostre preoccupazioni, specialmente con le persone di cui ci fidiamo e che ci possono capire.
Nutrire le relazioni e fare comunità
La qualità della nostra vita si valuta dalla qualità delle nostre relazioni, e questo vale sia a livello individuale che a livello sociale, ancor più in tempi di crisi collettiva. In questa fase la miglior reazione possibile è quella di fare comunità e sostenerci a vicenda. Una reazione che, per fortuna, è anche quella che viene più spontanea agli esseri umani davanti ad un disastro.
Lo dimostrò tra gli anni ’50 e ’60 il sociologo americano Enrico Quarantelli, riscontrando che di fronte ad un evento catastrofico la società normalmente non reagisce con isteria, ma con solidarietà, unione, comunanza, superamento dei conflitti, delle emarginazioni e delle disuguaglianze. “È difficile accettare che la bontà sia la normalità, è una verità troppo rassicurante”, spiegava. Eppure è così. L’umanità è programmata per collaborare almeno tanto quanto lo è per competere. E, se non fosse stata in grado di stringersi insieme nei momenti più difficili, si sarebbe già estinta molti, molti secoli fa.
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