La paura del fallimento, il timore di sbagliare, è uno dei blocchi più comuni. Per superarla bisogna cambiare il modo di pensare ai nostri errori
Il pastore Robert Schuller, che per decenni si impegnò nell’evangelizzazione del pensiero positivo sulla televisione americana, coniò una frase che trovo molto efficace: “Che cosa provereste a fare se sapeste di non poter fallire?”. È una domanda tutt’altro che banale, perché nasconde una grande verità: la paura del fallimento è uno dei timori più diffusi e radicati nella stragrande maggioranza delle persone. Un timore che, molto frequentemente, ci frena, ci blocca, ci impedisce di agire, proprio per evitare il possibile insuccesso.
Non è certamente un caso: anzi, questa convinzione è figlia di una cultura che ci insegna, fin da piccoli, a vergognarci dei nostri fallimenti. La nostra società è talmente intollerante verso chi fallisce da trattarlo come se fosse un criminale: un imprenditore fallito viene privato di tutti i suoi beni, non può cambiare liberamente domicilio, deve perfino consegnare all’autorità giudiziaria tutta la propria corrispondenza. Non c’è da stupirsi, dunque, se la maggior parte di noi la pensa in questo modo.
Il fallimento non esiste
Eppure basta rifletterci in modo più attento per rendersi conto di quanto questo sacro timore sia profondamente irragionevole, oltre che inutile e controproducente. E non soltanto perché ad ogni singolo essere umano, almeno una volta nella vita, è capitato di sbagliare, di non portare a termine un affare, di non superare un esame, di troncare malamente una relazione. Il motivo vero per cui non ha senso avere paura di fallire è che il fallimento, in realtà, non esiste affatto. O, per meglio dire, non è un fatto oggettivo, ma semplicemente il frutto di una nostra interpretazione soggettiva.
Pensateci un attimo. Che cosa ci fa dire che una nostra azione si è conclusa con un fallimento? Il fatto che il suo esito non sia stato all’altezza delle nostre aspettative. L’unico dato di realtà di tutta la vicenda è il suo risultato: attribuirgli o meno l’etichetta di “fallimento” dipende da come lo valutiamo, ovvero da un confronto tra l’effetto ottenuto e quello che ci prefiggevamo. Ci sono persone, i cosiddetti perfezionisti, che per quanto riescano ad avvicinarsi all’eccellenza non saranno mai soddisfatti, perché si pongono un obiettivo irreale, che esiste soltanto nella loro mente. Per loro, comunque vada, sarà un fallimento. Se riuscissero a guardare non tanto la strada che ancora manca per raggiungere un’illusoria perfezione, bensì quella che hanno già percorso; se spostassero il loro punto di vista dai propri limiti ai propri punti di forza, proverebbero molta meno sofferenza e frustrazione, anche a parità di risultato ottenuto.
“…e se sbaglio?”
Obietterete che, pur avendo stabilito un obiettivo raggiungibile e una strategia efficace e pur avendo dato il massimo, può comunque capitare che le cose non vadano come ci auguravamo, per tutta una serie di fattori esterni che spesso esulano dal nostro controllo. Non avete torto. Eppure, anche in questo caso, non ha molto senso legare a questo avvenimento uno stato emotivo negativo. È vero, infatti, che non abbiamo raggiunto il risultato sperato, ma ne abbiamo prodotto uno diverso: abbiamo fatto esperienza.
Qualsiasi tentativo compiuto, anche il più apparentemente disastroso, ha sempre qualcosa da insegnarci. Le persone di maggior successo non sono quelle che non sbagliano mai, bensì quelle che sanno trarre la lezione istruttiva che è contenuta in ogni errore. Analizzando e comprendendo con precisione in quale punto esatto il piano che avevamo predisposto non ha funzionato, saremo in grado di studiarne uno migliore per la volta successiva, così da aumentare le nostre probabilità di riuscita.
Imparare dagli errori
Questo è, ad esempio, ciò che accade nel mondo della ricerca scientifica. Un esperimento che non ha validato la sua ipotesi iniziale rappresenta comunque un passo avanti nella conoscenza, perché ha svelato che quel presupposto era falso. Come rispose Thomas Edison a quell’amico che lo sfotteva per aver fallito per diecimila volte mentre tentava di costruire la lampadina elettrica: “Io non ho fallito, ho scoperto diecimila modi di non inventare la lampadina”. Come sia andata a finire lo sappiamo tutti.
“Sbagliando s’impara”, recita il vecchio adagio, che tutti noi abbiamo sentito ripetere talmente tante volte nella nostra vita da non prestargli ormai più nemmeno attenzione. Ma è proprio così: invece di sentirci feriti, delusi, rancorosi, depressi, arrabbiati, invidiosi, furiosi quando commettiamo un errore, l’unico atteggiamento produttivo è quello di apprendere da esso, per poi in futuro tentare strade diverse, compiere azioni diverse, ottenere risultati diversi. Il fallimento non è soltanto un modo che abbiamo per accrescere il nostro livello di esperienza. È l’unico modo che abbiamo.
Ricordatevelo, la prossima volta in cui vi sentirete bloccati dalla paura del fallimento. Quell’azione che non vi sentite pronti a intraprendere è proprio quella che potrebbe realizzare il vostro obiettivo. Oppure, al contrario, che potrebbe aiutarvi a definire meglio la strategia da adottare per i successivi tentativi. Nell’uno o nell’altro caso, vi avvicinerà ai vostri desideri. Per male che vada, avrete imparato a sbagliare meglio.
Esercizio: ripensa ai tuoi fallimenti
Provate a pensare al più grande fallimento (o ai più grandi fallimenti) della vostra vita, che vi ricordate ancora oggi e che magari vi fa tuttora soffrire. Prendetevi qualche minuto per rispondere a queste domande:
- Che cosa è successo che non ha fatto andare in porto quel mio intento?
- Qual è stata la causa specifica di quel fallimento?
- Che cosa ho fatto in quell’occasione che potrei fare meglio in un successivo tentativo?
- Che lezione ho appreso da quell’esperienza?
Potreste scoprire che sono alcune delle lezioni più importanti che avete imparato in tutta la vostra vita.
“Io non perdo mai: o vinco, o imparo”
Nelson Mandela
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