Impariamo a dare meno peso ai bulli o agli hater, che spesso incontriamo sui social network. Ma anche ai nostri stessi giudizi troppo severi
Chiamateli bulli, hater, o semplicemente criticoni. Molti di noi hanno dovuto scontrarcisi durante l’infanzia o l’adolescenza: affrontando difficoltà e sofferenze, ma allo stesso tempo sviluppando anche una personalità brillante e creativa. Al contrario di quelli che sono stati i ragazzi fighi e sportivi o le ragazze magre e carine, che in genere da adulti si ritrovano imprigionati in una vita personale e lavorativa estremamente noiosa, proprio perché da giovani non sono mai stati costretti a trovarsi la propria strada. D’altra parte, chi ha mai sentito parlare di un musicista o di un artista che si fosse integrato facilmente a scuola?
Ma l’esperienza ci ha insegnato altrettanto bene che le critiche non hanno età. Non solo da giovani, ma anche da adulti, tutti noi siamo costantemente sommersi dai giudizi degli altri: in particolare nell’epoca che stiamo vivendo oggi, quella dei social network. Facebook, Twitter, Instagram sono infestati da utenti che non perdono occasione per sottolineare con cattiveria e rancore qualunque fallimento altrui, o anche solo per incolpare chiunque non si comporti in base alle loro personalissime aspettative.
Troppo facile fare gli hater sui social network
Mettiamoci il cuore in pace: cadere, subire numerose batoste, avere il cuore spezzato è l’effetto collaterale di ogni vita coraggiosa. Non è un rischio, un’eventualità, ma una certezza. Dovete esserne consapevoli ogni giorno, quando vi ritrovate di fronte sempre allo stesso bivio: o mettervi in gioco, oppure restare seduti sulla vostra comoda poltrona e assistere passivamente alla vita. Se non siete disposti a buttarvi e a soffrire, allora fareste meglio a risparmiarvi le critiche verso chi invece decide di farlo: il vostro parere non ci interessa. Se invece fate parte della schiera dei coraggiosi, allora il consiglio che vi do è quello di perdere la brutta abitudine di ascoltare, analizzare, farsi ferire da questi messaggi velenosi e negativi, che hanno l’unico effetto di farvi del male. Non innervositevi, non arrabbiatevi, non rispondetegli per le rime: semplicemente lasciateli cadere per terra, passate oltre e proseguite il vostro cammino.
Badate bene: non vi sto dicendo che non dobbiamo ascoltare ciò che pensano le altre persone. Sto dicendo piuttosto che non dobbiamo ascoltare ciò che pensano certe persone. Il nostro cervello è naturalmente programmato per ascoltare il giudizio degli altri, e pretendere che non sia così è una semplice illusione. Piuttosto, se vogliamo proteggerci con efficacia, non ha senso che attribuiamo indiscriminatamente lo stesso valore al parere di chiunque: al contrario, dobbiamo selezionare con estrema cura le poche persone la cui opinione è davvero importante per noi. Che poi sono quelle persone che ci amano non a dispetto dei nostri difetti e delle nostre imperfezioni, ma proprio grazie ai nostri difetti e alle nostre imperfezioni. Dunque, prestiamo attenzione alle loro critiche sincere e affettuose, e impariamo semplicemente a disinteressarci di quelle di chiunque altro.
Occhio alle regole con cui ci giudichiamo
Questo stesso atteggiamento di sano distacco rispetto ai giudizi altrui vale, a maggior ragione, nei confronti del nostro critico più severo: noi stessi. È vero che il fallimento, per quanto porti con sé degli insegnamenti spesso inestimabili, ci fa paura e ci fa stare male: per questo siamo spontaneamente portati ad evitarlo. Ma è altrettanto vero che siamo noi stessi a decidere se abbiamo vinto o abbiamo perso, e molto spesso, purtroppo, lo determiniamo in base ad un punteggio truccato. Il nostro sentimento di soddisfazione o di frustrazione rispetto ai risultati che abbiamo ottenuto dipende unicamente dalle nostre aspettative, dalle regole che noi stessi ci siamo imposti. E che, più o meno consapevolmente, imponiamo anche agli altri: con il risultato che chi è più severo con se stesso lo sarà anche con chi gli sta intorno, perfino con chi ama di più.
Molte volte queste regole autoimposte dipendono dai condizionamenti culturali, altre volte dalla convinzione che, se non ci poniamo degli obiettivi sufficientemente alti, perderemo la motivazione che ci spinge a dare il meglio di noi stessi. Invece, è vero l’esatto contrario: se poniamo la nostra asticella ad un livello pressoché impossibile da raggiungere, finiremo per sentirci sempre arrabbiati, feriti o addirittura falliti, per quanto ci siamo impegnati al massimo; finiremo per considerarci sconfitti per quanto grande sia l’impresa che abbiamo realizzato. È apprezzabile porsi degli standard elevati, ma il perfezionismo è tutta un’altra cosa. Dopotutto, come si può mai sperare di vincere una partita che abbiamo basato su regole così ingiuste?
Non è il critico che conta, né l’uomo che indica perché il forte cade, o dove il realizzatore poteva fare meglio. Il merito appartiene all’uomo che è nell’arena; il cui viso è segnato dalla polvere e dal sudore; l’uomo che sbaglia e può cadere ancora, perché non c’è conquista senza errore o debolezze, ma che veramente cerca di realizzare; che conosce il grande entusiasmo e la grande gioia; che si adopera per una nobile causa, che conosce alla fine il trionfo delle alte mete, e che nel peggiore dei casi, se fallisce, lo fa mentre sta osando molto
Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti d’America, 23 aprile 1910
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