La medicina moderna si è occupata molto della cura delle malattie e poco della cura della persona. La pandemia lo ha evidenziato in modo inequivocabile
Uno degli aspetti che questa crisi del coronavirus, a mio modo di vedere, sta svelando con maggior evidenza è il paradigma disfunzionale che ha orientato per lungo tempo la medicina, almeno quella allopatica moderna. Per decenni e decenni, infatti, i medici sono stati educati a vedere la loro funzione come quella di curare le malattie, piuttosto che la persona.
Ciò ha prodotto degli squilibri straordinari nell’intero sistema sanitario. E non mi riferisco soltanto a quella fetta della sanità privata che, dimostrando ben poca lungimiranza, ha ridotto l’orizzonte dei propri obiettivi solamente al profitto e al benessere dei propri azionisti, curandosi poco o niente di quello dei propri pazienti.
Una persona non è una macchina
Anche laddove l’interesse sincero della medicina era rivolto all’eliminazione del male, questo processo era comunque interpretato a livello meccanicistico. Quasi come se l’essere umano non fosse un organismo complesso, costituito da inestricabili e per molti versi imperscrutabili legami e interconnessioni tra corpo, ragione e sentimenti, bensì una semplice macchina alla quale sostituire i pezzi rotti.
I risultati della prolungata applicazione sistemica di questo paradigma sono stati, a livello organizzativo, la costruzione di ospedali grigi e brutti a vedersi, all’interno dei quali chirurghi e infermieri hanno sviluppato molto le loro competenze cliniche ma pochissimo quelle relazionali, tanto con i malati quanto con i loro familiari. E, a livello terapeutico, una grande ricerca nella cura dei traumi a fronte della totale sottovalutazione di aspetti almeno altrettanto cruciali come la prevenzione, lo stile di vita, l’alimentazione, l’esercizio, l’equilibrio psicofisico e quello emotivo.
Distributori di pillole
La figura del medico si è progressivamente allontanata da quella di uno specialista della salute complessiva dell’individuo, avvicinandosi a quella di un riparatore da cui la persona si reca solo quando interviene una patologia. Il messaggio sottinteso è chiaro: non serve che tu ti concentri più di tanto sui tuoi comportamenti, tanto quando ti ammali c’è sempre il medico che ti può dare una pillolina.
L’abbattersi della pandemia, come detto, ha esposto davanti agli occhi di tutti coloro che lo vogliono vedere quanto il re della favola sia nudo. Per come la vedo io, l’errore più grande della medicina non ha riguardato tanto la gestione dell’emergenza, quanto la totale impreparazione preventiva. Quella del sistema sanitario, quanto quella dei singoli medici e dunque, di conseguenza, dei loro pazienti.
Prendere tempo
Il solito paradigma vorrebbe che al coronavirus si facesse fronte con una cura farmacologica, ma purtroppo (almeno al momento) per questo contagio non esiste alcuna pillolina miracolosa. E, dunque, la migliore tattica che si è riusciti a partorire è stata semplicemente quella di prendere tempo: rintanarci in casa e aspettare che il fantomatico medicinale o il vaccino vengano finalmente sviluppati.
Il che equivale a fuggire di fronte ad un problema invece di affrontarlo. Già, perché il modo migliore di superare le sfide non è evitarle, ma prenderle di petto. Sviluppare e allenare le risorse di cui si dispone per poterle risolvere: ovvero, nel caso di un virus, il nostro sistema immunitario.
Chi pensa al sistema immunitario?
Se ampie fette della popolazione (non solo anziana, ma anche giovane) si sono trovate completamente inermi di fronte alla pandemia è stato perché nessuno le ha mai educate davvero all’importanza di uno stile di vita sano, di un’alimentazione che privilegi la verdura alla carne, di un esercizio fisico costante, di non fumare, persino di evitare stati emotivi prolungati di stress e di paura. Questo è il vero modo migliore di cui la natura ci ha dotato per difenderci da qualunque contagio, molto di più delle mascherine o del distanziamento sociale.
Il mio non vuole essere un atto di accusa contro l’intera classe medica. Anch’io mi unisco al sacrosanto coro di rispetto, stima e gratitudine che viene innalzato quotidianamente nei confronti dei professionisti e addirittura dei tanti volontari che, con abnegazione e passione, rischiano la propria vita per alleviare la sofferenza dei malati. Non è certo loro la colpa di un sistema che è stato fondato, molto prima che loro nascessero, su presupposti incompleti e non armonici. E tuttavia è loro, come professionisti, tanto quanto nostra, come semplici (si fa per dire) pazienti, quella di prendere consapevolezza dei limiti di questo sistema e impegnarsi per risolverli.
#Restoacasa… o no?
Ad esempio: siamo così sicuri che la strada migliore sia davvero quella di attenersi ottusamente alle direttive e invitare le persone a rimanere a casa per due mesi, con la conseguenza di farle strafogare di cibi poco sani, di limitare al minimo il movimento, di cancellare la vita all’aria aperta e al sole, di farsi bombardare tutto il giorno da notizie catastrofiche e ansiogene? È così che sviluppiamo il nostro sistema immunitario e ci prepariamo a fronteggiare il coronavirus?
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